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lunedì 21 dicembre 2015

La nuova TAC che evita la coronarografia


Inserire un catetere nell’arteria femorale, risalire fino al cuore. Qui, iniettare un mezzo di contrasto e poi osservare le coronarie ai raggi X per capire se ci siano restringimenti che rischiano di portare a un infarto o se il sangue circoli ancora bene. È la procedura per la coronarografia, un’esame eseguito dai cardiologi interventisti su moltissime persone per le quali si teme una malattia coronarica: stando agli ultimi dati della Società Italiana di Cardiologia Invasiva, in un anno in tutta Italia se ne effettuano oltre 275mila. Pur essendo un test di routine, i pazienti ne farebbero volentieri a meno perché si tratta pur sempre di un esame invasivo
Tuttavia, in alcuni casi oggi è possibile evitare la coronarografia grazie a una Tac speciale, la Ffr-Ct. In Europa viene usata da 11 ospedali di Germania, Belgio, Francia e Regno Unito, nel nostro Paese presso il Centro Cardiologico Monzino di Milano, che ha coordinato lo studio scientifico “Platform” per valutarne il rapporto costo-beneficio rispetto alle analisi già usate. 

Le tac di ultima generazione
Stando ai dati, pubblicati di recente sull’ European Heart Journal , «Grazie alla maggiore definizione spaziale delle nuove Tac la capacità di individuare stenosi delle coronarie (un restringimento che può preludere all’infarto, ndr ) è molto aumentata, senza esporre il paziente a una dose superiore di raggi rispetto alla Tac tradizionale - spiega Gianluca Pontone, responsabile dell’Unità di Risonanza Magnetica al Monzino e coordinatore dell’indagine Platform -. Soprattutto, con le Tac di ultima generazione oggi si può misurare un parametro, la Fractional Flow Reserve o Ffr, che stabilisce il significato funzionale dei restringimenti e quindi indica quali comportano un reale rischio di occlusione e necessitano di intervento ». «La Tac coronarica standard ha una sensibilità del 94% nel riconoscere la presenza di placche aterosclerotiche nelle coronarie ma la specificità, cioé la capacità di individuare quelle che realmente ostacolano il flusso sanguigno, è del 48%: non molto diversa, quindi, da quella di altri esami usati per decidere l’opportunità di sottoporre i pazienti a una coronarografia, come test da sforzo, ecocardiografia da sforzo o scintigrafia miocardica, tutti fra 45 e 48 % - interviene Antonio Bartorelli, responsabile della Cardiologia interventistica al Monzino -. Con la Tac, quindi, spesso vengono avviati alla procedura invasiva anche pazienti con lesioni minime che non darebbero fastidio, con costi elevati e aumento dell’esposizione a radiazioni. La Ffr-Tac ci aiuta a capire se a valle della placca che vediamo c’è una caduta del flusso indicativa di un problema funzionale, grazie a un software che con simulazioni virtuali valuta la Ffr». 

L’importanza di altri test cardiologici
Con un test solo si studiano quindi anatomia dei vasi e gravità dei restringimenti. Utile soprattutto nei casi in cui il dato della Tac è incerto, stando ai risultati dello studio Platform, può far risparmiare fino al 60% delle coronarografie che verrebbero raccomandate sottoponendosi a una Tac standard. «L’obiettivo è portare in emodinamica solo chi davvero deve andarci, inoltre la Tac offre una visione anatomica ottimale: quando i pazienti arrivano dopo questo test noi cardiologi sappiamo esattamente che cosa ci troveremo davanti», specifica Bartorelli. 
Un corollario non è meno importante: se basta la Tac a fugare i dubbi e decidere chi ha davvero bisogno della coronarografia l’esposizione alle radiazioni diminuisce e magari si potrebbe ridurre anche il ricorso alla scintigrafia, un esame ottimo per valutare la funzionalità cardiaca ma in cui il mezzo di contrasto radioattivo si diffonde ovunque. «Bisogna sottolineare, però, che la dose di raggi dipende sempre da come e da chi viene eseguito l’esame - osserva Paola Enrica Colombo, coordinatrice del Gruppo di Lavoro TC multistrato dell’Associazione Italiana Fisica Medica -. Con la Tac cardiologica, l’esposizione può andare da 1 a 25 milliSievert (l’unità di misura delle radiazioni, ndr ), a seconda dello strumento e del protocollo usato; lo stesso accade con la coronarografia, dove la bravura del medico conta non poco per individuare velocemente il problema e ridurre così l’esposizione. A parità di tecnologie, se si utilizzano protocolli adeguati messi a punto in collaborazione con i fisici medici la dose può essere anche dimezzata: perciò, quando ci si sottopone a questo genere di esami, è sempre opportuno scegliere centri specialistici con esperienza. Senza contare che non dobbiamo mandare in soffitta gli altri test cardiologici: abbiamo molti metodi che danno informazioni diverse, l’importante è scegliere l’approccio giusto in ogni situazione. A volte, certo, possono bastare i test da sforzo o può essere utile una risonanza, esame a rischio zero per le radiazioni, ottimo per valutare la funzionalità cardiaca che tuttavia, oltre a essere costoso e richiedere molto tempo, non dà indicazioni morfologiche; non bisogna però avere la fobia da radiazioni, perché Tac cardiologica e coronarografie servono in situazioni complesse, in cui scoprire se c’è o meno un restringimento coronarico pericoloso può fare la differenza fra un infarto e un’angioplastica con cui si risolve tutto - sottolinea Colombo -. L’essenziale, quindi, è valutare di caso in caso il rapporto costo-beneficio dei raggi, anche se certamente il futuro va verso la riduzione del numero di esami e di radiazioni necessarie ad avere tutte le informazioni utili per decidere: in questo senso, i software che danno indicazioni funzionali a partire da una tecnologia statica come la Tac sono innovativi e promettenti». 

lunedì 14 dicembre 2015

Terapia con linfociti T eradica il #mieloma di un paziente

ORLANDO (Florida) - Un’immunoterapia cellulare con linfociti T geneticamente modificati in modo da esprimere un recettore chimerico (CAR) capace di riconoscere antigeni tumorali (CAR t-cells) ha portato all’eradicazione della malattia in un paziente affetto da mieloma multiplo in stadio avanzato, il che suggerisce la possibilità di guarire in via definitiva questa condizione. 

È la prima volta che succede. L’eccezionale risultato è stato ottenuto in uno studio eseguito da ricercatori del National Cancer Institute (NCI), senza dubbio tra i più interessanti presentati al congresso dell’American Society of Hematology (ASH), in corso a Orlando, in Florida.

Il trattamento con questi linfociti T, modificati in modo da esprimere un CAR diretto contro l’antigene di maturazione delle cellule B (BCMA), ha mostrato comunque una forte attività clinica anche negli altri pazienti studiati, che erano tutti soggetti altamente pretrattati.

Il paziente che sembra guarito aveva inizialmente una percentuale di cellule mielomatose nel midollo osseo superiore al 90%, percentuale che si è ridotta allo 0% un mese dopo l’infusione delle cellule T esprimenti un CAR anti- BCMA, ha riferito l’autore principale dello studio, James N. Kochenderfer, del NCI’s Center for Cancer Research.

Anche se la ricerca è ancora nelle sue fasi iniziali, ha avvertito il ricercatore, i risultati mostrano le potenzialità di questa terapia per i pazienti colpiti da mieloma multiplo.

"È la prima volta che un’immunoterapia con cellule T esprimenti un CAR, riesce a eradicare completamente o a ridurre in modo sostanziale un mieloma multiplo misurabile" ha affermato Kochenderfer.

"Abbiamo visitato il paziente proprio questa settimana ed è ancora in remissione completa stringente, che perdura da 14 settimane" ha riferito il ricercatore.

Il razionale per l'utilizzo del BCMA come antigene bersaglio delle CAR T-cells utilizzate per il mieloma multiplo deriva dal fatto che è un membro della superfamiglia del TNF espresso in molti casi di mieloma multiplo, dal 60% al 70%, ha spiegato l’autore.

Studi con PCR quantitativa hanno dimostrato che il BCMA è espresso solo nel midollo osseo, negli organi linfoidi e nei tessuti noti per avere plasmacellule nella lamina propria. Studi di immunoistochimica hanno, inoltre, dimostrato che questo antigene è espresso solo dalle plasmacellule e da una piccola frazione di cellule B.

Lo studio di Kochenderfer e i colleghi ha coinvolto in totale 11 persone affette da mieloma multiplo avanzato, che avevano già fatto una mediana di sette terapie.

I partecipanti sono stati sottoposti a una chemioterapia con ciclofosfamide (300 mg/m2) e fludarabina (30 mg/m2) per 3 giorni, seguita da una singola infusione di CAR-T cells, con quattro diversi dosaggi (0,3 x 106, 1x106, 3x106 o 9x106/kg di peso corporeo). 

Sei pazienti sono stati trattati con i due dosaggi più bassi. Uno di essi ha mostrato una remissione parziale transitoria, durata 2 settimane. Gli altri cinque pazienti hanno raggiunto una stabilizzazione della malattia.

Nei tre pazienti trattati con il dosaggio pari a 3x106 CAR T-cells/kg, due hanno raggiunto una stabilizzazione della malattia, mentre l’altro paziente ha ottenuto una buona remissione parziale, con la completa eliminazione della malattia a livello osseo confermata dalla PET, la normalizzazione delle catene leggere libere nel siero e la cleareance delle plasmacellule dal midollo osseo.

Le tossicità associate a questi dosaggi sembrano essere state lievi e sono state rappresentate da citopenia, febbre e sindrome da rilascio di citochine, con tachicardia e ipotensione.

Gli altri due pazienti sono stati trattati col dosaggio più elevato. Uno dei due è quello che ha ottenuto l’eradicazione della malattia, mentre l’altro ha mostrato una risposta parziale.

In generale, le tossicità sono apparse simili a quelle osservate nei pazienti leucemici trattati con CART T-cells anti-CD19.

Lo studio del NCI arriva in un momento di rapida espansione delle opzioni terapeutiche per i pazienti affetti da mieloma multiplo. Solo nelle ultime 3 settimane l’Fda ha dato il suo ok a ben tre nuovi agenti: elotuzumab e daratumumab, i primi anticorpi monoclonali approvati per questa neoplasia, e  ixazomib, il primo inibitore del proteasoma orale.

In conferenza stampa, Kochenderfer ha ricordato che al momento non esiste una cura definitiva per il mieloma e che c’è ancora la necessità di terapie capaci di tradursi in remissioni durature. 

"Il mio obiettivo, nell’utilizzare le CAR T cells per il mieloma, è quello di avere qualcosa in grado di portare a remissioni complete stringenti che durino nel tempo" ha detto il ricercatore, sottolineando, però, che nel prossimo futuro quest’immunoterapia cellulare non sarà una terapia di prima linea. Inoltre, ha aggiunto, si spera che questa terapia possa rilevarsi più efficace degli anticorpi monoclonali. 

Kochenderfer ha poi detto che il suo obiettivo è anche quello di cercare di ridurre la tossicità dell’immunoterapia con CAR T cells senza comprometterne l’efficacia.

Il paziente che ha avuto la risposta migliore alla terapia è anche quello che ha manifestato il maggior numero di tossicità. Inizialmente ha avuto una sindrome da rilascio di citochine grave a seguito dell’infusione della terapia e ha avuto bisogno di trasfusioni di piastrine per 9 settimane prima di raggiungere la remissione completa stringente tuttora in corso.

Le tossicità che hanno preceduto la risposta completa stringente comprendevano febbre, tachicardia, ipotensione, aumento degli enzimi epatici e aumento della creatinina chinasi. Ognuno di questi sintomi/segni si è risolto nel giro di 2 settimane. Al momento dell’infusione, il paziente aveva una conta assoluta dei neutrofili inferiore a 500 microlitri, che è rimasta intorno a quei valori per 40 giorni dopo l'infusione.

Nonostante queste tossicità, la risposta alla terapia è stata rapida e drammatica. Prima del trattamento il paziente aveva livelli molto elevati di IgA (> 3000 mg/dl ); nel giro di pochi giorni dopo l'infusione, il livello è sceso di oltre il 30% e ha raggiunto valori non rilevabili entro il giorno 20.

I test di immunofissazione nel siero e nelle urine sono rimasti negativi e la valutazione del mieloma con citometria a flusso è diventata negativa ed è rimasta tale 3 mesi dopo il trattamento.

Inoltre, ha riferito Kochenderfer, l’analisi del midollo osseo prima e dopo il trattamento ha mostrato la scomparsa delle cellule CD138-positive dopo infusione delle CAR T-cells anti-BCMA.

"Dopo il trattamento, le plasmacellule CD138-positive erano completamente assenti. Credo che questo sia il dato più importante del nostro studio. In questo paziente abbiamo eradicato completamente le plasmacellule maligne, che continuano ad essere assenti 14 settimane dopo il trattamento" ha detto il ricercatore.

A chi gli chiedeva da cosa dipenda questo risultato, Kochenderfer ha detto che non lo si sa ancora e che i ricercatori stanno lavorando per cercare di rispondere a questa domanda. 
Nei prossimi 2 mesi, ha anticipato l’autore, partirà un nuovo studio multicentrico sull’immunoterapia con CAR T-cells anti-BCMA nei pazienti con mieloma multiplo.

mercoledì 9 dicembre 2015

Una nuova strategia vaccinale antiinfluenzale per i malati di #mieloma

ORLANDO (Usa), 9 dicembre - E’ una nuova strategia vaccinale, disegnata apposta per ridurre il rischio di ammalarsi di influenza nei pazienti affetti da tumori che interessano il sistema immunitario, quali il #mieloma multiplo. Questi soggetti sono particolarmente suscettibili a infezioni di tutti i tipi e ammalarsi di influenza per loro può significare anche andare incontro alla morte.
Messo a punto dai ricercatori dello Yale Cancer Center la nuova strategia anti-influenzale è stata presentata al 57° congresso dell’American Society of Hematology, a Orlando (USA).

Sebbene i pazienti con #mieloma o altre patologie a carico delle plasmacellule possano fare la vaccinazione antinfluenzale annuale, alcuni studi hanno dimostrato che non è sufficiente per proteggerli dalla malattia, visto che non sollecita un’adeguata risposta immunitaria.
 

Per questo i ricercatori di Yale hanno messo a punto una muova strategia consistente nella somministrazione di un vaccino antinfluenzale ad alte dosi, seguito da una secondo ‘booster’, sempre ad alta dose, a circa un mese di distanza. Questo vaccino ad alta dose (Fluzone High-Dose) esiste già negli USA, dove è stato approvato dall’FDA nel 2009. Nessuno però finora lo aveva impiegato con queste modalità.
 
Gli autori dimostrano che questa strategia vaccinale riesce a portare il rischio influenzale ad uno scarso 6%, contro il 20% atteso, ed è in grado di migliorare protezione contro tutti i ceppi influenzali,  coperti dal vaccino nel 66% dei pazienti.
 
“Usando un vaccino già approvato, ma con un nuovo schema di somministrazione, abbiamo avuto risultati promettenti in questo gruppo di pazienti ad elevato rischio di infezione – spiega Andrew Branagan, Yale University – Speriamo di confermare questi risultati in un più ampio studio randomizzato che partirà a Yale durante la stagione influenzale 2015-16. L’idea che abbiamo è che questa strategia potrà essere d’aiuto anche ad altre popolazioni di pazienti oncologici”.
 
Lo studio è stato finanziato dallo Arthur R. Sekerak Cancer Research Fund, parte del fondo filantropico dello Yale Cancer Center.